Diventare mamma è stata l’esperienza più emozionante e incredibile di tutta la mia vita.
Guardando le mie figlie negli occhi, ho capito cosa volesse dire davvero amare qualcuno. Certo, l’amore era già presente nella mia vita, ma quello per un figlio è un amore diverso, più consapevole, più totalitario.
Quando diventi mamma ha davvero senso pensare che per qualcuno potresti anche morire. Perché per i figli si vorrebbe fare tutto.
Con le gioie della maternità sono poi, però, arrivate presto anche le responsabilità e i sensi di colpa. È tutto fisiologico, nel momento stesso in cui diventi madre capisci che dovrai prenderti cura di qualcuno che non sia tu e che conta su di te e il tuo compito è grande. Talmente grande che spesso ti senti sopraffare e pensi di non essere in grado o di non farcela.
E quando non ce la fai ti senti in colpa per non essere all’altezza.
Sentimenti contrastanti che almeno una vita provano tutte le mamme.
Io mi sono sentita responsabile per Lavinia la prima volta che ho dovuto prendere una decisone per lei, per la sua salute, ma è quando è nata la sorella che ho iniziato a convivere con i miei sensi di colpa.
D’altronde io ero una sola e mi dovevo dividere tra Lavinia e Ludovica, la prima che andava rassicurata, la seconda che andava conosciuta, e più mi rendevo conto che non era fattibile dividere in parti uguali tempo, amore e attenzione, più me ne facevo una colpa.
Che madre ero se non riuscivo a farcela con due quando altre riuscivano con quattro?
Poi a poco a poco ho iniziato a pensare che forse anche le altre convivevano con le mie stesse emozioni e che la verità è che pretendiamo tutte di arrivare ovunque, che siamo tutte molto esigenti con noi stesse, ma che alla fine non ci rendiamo conto che siamo umane e non infallibili.
La scorsa settimana ho partecipato a un osservatorio sulle famiglie di oggi, organizzato da Kinder che ha commissionato il “Kinderometro, il rilevatore dei piccoli momenti” a Ipsos, centro specializzato nelle ricerche di mercato a livello mondiale: un’indagine su scala internazionale in merito al rapporto tra genitori e figli, con la particolarità della duplice prospettiva delle due generazioni.
È emerso che se è vero che i genitori sono molto esigenti con loro stessi e che la ricerca della perfezione può essere fonte di senso di colpa, è anche vero che i genitori mediamente se la cavano bene ed i figli sono soddisfatti del rapporto che hanno in casa, con mamma e papà.
Sarebbe importante ricordare che non esistono genitori perfetti e che il nostro miglior livello di genitorialità nasce dalla quotidianità con i nostri figli che ci indicano giorno dopo giorno la retta via.
Se solo li osservassimo davvero, capiremmo che quello che conta per loro, è davvero un piccolo sforzo, senza inutili ansie da prestazione.
Per i bambini quello che conta è la qualità del tempo trascorso facendo quello che più a loro piace (vedi giocare insieme), mentre i genitori spesso si dispiacciono di stare poco con loro.
Quantità versus qualità, come sempre.
Giocare. Quante volte mi nascondo dietro le mille cose che devo fare o alla mia scarsa pazienza o al fatto che è mio marito l’addetto al gioco, e mi perdo così un semplice momento di condivisione con le mie figlie, crucciandomene. Loro mi chiedono di giocare, e io spesso dico di no, fosse anche solo perché sono stanca e ne sono consapevole.
Cerco però di trovare un compromesso e di regalare loro momenti che spero custodiranno e ricorderanno nella vita come i nostri piccoli momenti di amore.
Forse non ricorderanno di aver giocato con le Barbie con la mamma, ma spero si ricorderanno le nostre risate. Risate che non ci facciamo mai mancare nei nostri piccoli momenti di condivisione.
Forse non sono una gran giocatrice ma cerco di esserci il più possibile. Ho la fortuna di avere un lavoro che mi permette di godermele e di vivere accanto a loro.
Le accompagno a scuola e le vado a riprendere, le porto a danza e a ginnastica senza delegare. Abbiamo i nostri viaggi in solitaria quando raggiungiamo papà e partiamo per le avventure tra ragazze (cosa che spero regalerà loro coraggio e voglia di scoprire il mondo, senza farsi fermare dalla paura) e i nostri momenti di follia tutti i giovedì sera quando balliamo come matte sulle musiche del momento (ma anche sui pezzi evergreen della mia giovinezza) e cantiamo a squarciagola.
È proprio attraverso quest’ultimo momento speciale che cerco di mostrare loro l’importanza dell’ironia. Poco importa se sembro ridicola o se sono “vecchia” per certe cose, saper ridere di se stessi regala sempre una marcia in più. Io ne sono convinta.
Insomma forse non gioco nel senso più stretto del termine, ma cerco di insegnare loro che ci sono tanti modi di giocare e divertirsi.
E anche quando il mio lavoro mi toglie del tempo, nonostante sia seduta sul divano accanto a loro, cerco di coinvolgerle dove posso, chiedendo la loro opinione o la loro autorizzazione a mostrare la nostra vita insieme.
In questo modo le avvicino gradualmente alla tecnologia e ai social, che tanto attirano le nuove generazioni, e faccio anche loro comprendere che quello che può sembrare un gioco è invece un potente strumento di comunicazione che se usato bene può dire molto e farlo bene e che è bello condividere alcuni momenti della propria vita, ma è anche importante saper filtrare e regolarsi sull’utilizzo.
Insomma educare giocando e giocare educando. Questo spero ricorderanno le mie bambine quando saranno grandi. E se riuscirò nel mio intento di farle crescere sorridenti, autonome e felici, avrò raggiunto il mio obiettivo.
Perché alla fine quello che conta è davvero come si sta insieme e non quanto. Impariamo ad accettare i nostri limiti e a riconoscerci i meriti, quando ci sono.
Sere-Mammadalprimosguardo
Post in collaborazione con Kinder Italia